Un libro che richiama all’urgenza di essere realmente consapevoli del valore che diamo alle parole e di ciò che comunichiamo: è il libro “Benedetta parola”, pubblicato da Il Mulino e presentato il 29 dicembre scorso a Palazzo Antaldi come ultima “fatica” del prof. Ivano Dionigi, Presidente della Pontificia Accademia di Latinità istituita da Papa Benedetto XVI e già Rettore dell’Alma Mater di Bologna.
Fare della parola un oggetto di riflessione in un incontro pubblico è certamente insolito per un tempo in cui un progressivo depauperamento sta invadendo il linguaggio e pochi sembrano avvertire la necessità di una “ecologia linguistica” accanto a quella ambientale e sociale: la necessità, cioè, di ritornare ai significati originali delle parole e di usare, come diceva Frontone, verba optima et significantia; non dunque parole ovvie, “sulla via” (ob-via), che sono “calpestate” da tutti e talmente usurate da non dire più nulla.
L’evento ha suscitato grande interesse nei numerosi ascoltatori presenti, anche per l’alternarsi degli interventi del prof. Dionigi e dell’arcivescovo Sandro Salvucci, ministro della “Parola”, entrambi incalzati dalle domande di Virginia Ciaroni, giornalista di TV2000.
Impossibile restituire in questa sede la ricchezza dell’incontro. Inevitabile limitarsi ad alcuni spunti, per approfondire i quali si invita alla lettura del libro.
Un tema emerso è il rapporto tra la parola scritta e quella orale. Qual è più efficace? Aveva ragione Socrate nel diffidare della scrittura, perché “atrofizza la memoria, congela il discorso, impedisce il dialogo”? In realtà, ha affermato il prof. Dionigi, se è vero che “le parole viventi” colpiscono di più, è altrettanto vero che la scrittura ha reso possibile la storia e ha rappresentato un caposaldo della civiltà. Non c’è dunque contrapposizione tra le due. Anche perché, ha precisato l’arcivescovo, la parola scritta, come avviene per le Sacre Scritture, si incontra con uomini incarnati in culture, tempi, spazi diversi e risulta quindi sempre “antica e nuova”, trasformandosi in “tradizione viva”: una tradizione fondamentale per la sopravvivenza della “memoria”, qualora le parole scritte, i libri, venissero accidentalmente o volontariamente distrutti.
E proprio lo stabilire una “continuità tra la memoria dei trapassati e il progetto dei nascituri” e il “renderci partecipi di una grande comunità che non muore” sono compiti “miracolosi” della parola. La lingua non è un fenomeno “del presente” e “individuale”, ma è un fenomeno “storico” e “sociale”. L’italiano che parliamo, i nomi stessi che portiamo, vengono da lontano, dalla tradizione greca, latina, cristiana. La parola è dunque “un ponte” tra persone e tra generazioni.
Questo “status” dà indubbiamente alla parola un grande potere. Diceva Elias Canetti, Nobel per la letteratura nel 1981: “Se fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra”. In realtà il potere delle parole è ambivalente, come già notava Cicerone. La parola può essere “benedetta o maledetta”, “farmaco o veleno”, “simbolica o diabolica”, può unire o dividere. Sempre, dove ci sono persone, si profila il rischio di queste dinamiche antitetiche.
Entra in causa perciò anche il tema del rapporto tra la parola e la verità. “Il discorso persuade se è scritto con arte, non se è vero” diceva Gorgia, il principe dei Sofisti, il maestro degli incantamenti verbali. E invece occorrerebbe ristabilire il patto, di catoniana memoria, tra la realtà, la verità delle cose e le parole: rem tene, verba sequentur.
Quel “patto” che per i cristiani si è realizzato con la Rivelazione, ha detto l’arcivescovo. Con la possibilità, cioè, che la “Parola” vera di Dio ci parli attraverso le “parole” umane, rendendoci capaci di “bene dire”, di dire il bene che c’è in tutti, di identificare tutti come fratelli, di considerare gli altri una ricchezza nel cammino di ricerca della verità, che, come diceva von Balthasar “è una verità sinfonica”.
Paola Campanini