57ma MARCIA NAZIONALE DELLA PACE – LE TESTIMONIANZE: Il Perdono – Il Debito – Il Disarmo

MARCIA NAZIONALE DELLA PACE

Pesaro, 31 dicembre 2024

 

 PRIMA TAPPA: IL PERDONO

TESTIMONIANZA DI GIORGIO PIERI: Progetto Cec (Comunità educanti con i carcerati) Papa Giovanni XXIII.

Comincerei da una frase di Papa Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono” a cui aggiungerei: “Non c’è perdono senza speranza”.

C’è una confusione colpevolmente generata dalla disinformazione sulla situazione delle carceri. Se oggi escono 140 persone dai nostri istituti, noi sappiamo che entro 5 anni 110 tornano a delinquere. Questa è una guerra silenziosa, ma reale. Dobbiamo comprendere che il carcere non è la soluzione per l’uomo che sbaglia. Negli ultimi tempi ci sono stati 90 suicidi, 10 mila atti di autolesionismo. Si penda di combattere il male con il male. Ma che idea abbiamo noi dell’uomo?

Parlo di una mia esperienza. Nel 1997 nel carcere minorile di Pesaro, abbiamo organizzato una giornata per i giovani: abbiamo giocato a calcetto, fatto festa; poi a un certo punto sono arrivate le guardie e i ragazzi dovevano ritornare nelle celle. Un ragazzo di 16 anni, in carcere per omicidio, ci dice: “Questa sera non è come le altre sere perché ci siete voi. Domattina non sarà come le altre mattine perché so che voi mi aspettate”. L’uomo non è il suo errore. Il carcere è una struttura di peccato.

Allora che cosa fare? Invece di maledire il buio, bisogna accendere la luce. Invece di maledire il carcere, bisogna aprire luoghi. E noi abbiamo aperto nel 2004 la “Casa Madre del perdono”, dedicata a Maria che ha dovuto perdonare chi gli ha ucciso il figlio. Sono andato da don Oreste Benzi che mi ha detto: “Hai qualcuno di cui ti fidi?” Io gli ho risposto: “Giuseppe, 31 anni di carcere”. Lui mi ha detto ancora: “Ma ti fidi?”. E io: “Si”. “Allora apriamo la casa”.

Da allora abbiamo aperto altre dieci Case, di cui due in Camerun. La recidiva tra le nostre persone si è abbassata dal 70% al 10-12%. Come diceva don Oreste: “Le cose belle prima si fanno poi si pensano”.

In queste comunità cosa facciamo? Offriamo una formazione umana e una formazione religiosa, leggendo la Parola del Signore anche ai musulmani. Ma è soprattutto la relazione che guarisce. Queste Case sono portate avanti da operatori come me e da volontari (nel riminese abbiamo tre Case con una quarantina di volontari per una settantina di persone).

La parola “comunità” deriva da “cum munus” (=obbligo, dono). Nella comunità c’è l’obbligo di donarsi. Le comunità sono luoghi in cui è possibile passare dall’egocentrismo, dove ognuno arraffa per sé a discapito dell’altro all’altero-centrismo dove il mio bene coincide con quello dell’altro.

Abbiamo imparato che la pace si capisce costruendo comunità, non rimanendo nell’individualismo.

Che il male, pur essendo un mistero, cresce nelle ferite del cuore dell’uomo. Abbiamo capito che bisogna lavorare sulla ferita e che la ferita nasce soprattutto in ambito familiare. Non tutti quelli che hanno problemi familiari vanno a finire in carcere, ma la maggioranza di quelli che sono in carcere hanno avuto problemi familiari. Quindi se si vuole costruire la pace, si deve custodire la famiglia.

Sul perdono abbiamo capito che prima di chiedere perdono alla società, le persone devono imparare a perdonare se stesse e che, come il male fisico può essere curato, così anche il male morale può essere curato. Questa è la bella notizia. E allora ci vogliono luoghi, comunità, che sono come ospedali da campo, come diceva il Papa, dove il medico è il Signore: “Non sono venuto per i sani, ma per i malati; non per i giusti, ma per i peccatori”.

Concludo dicendo che Antonello ha portato al Papa il formaggio del perdono e gli ha detto: “Queste mani che hanno fatto tanto male, ora sanno fare qualcosa di buono”. E il Papa gli ha detto: “Non c’è santo senza passato, non c’è peccatore senza futuro”. E questo futuro lo possiamo costruire insieme.

TESTIMONIANZA DI ANTONIO

Io faccio parte delle persone che sono andate in carcere e hanno sbagliato. Ogni uomo ha una storia e molte volte il reato è solo la punta di un iceberg, perché al di sotto c’è un malessere, una ferita. Questo non giustifica il male che uno fa, ma qual è la differenza tra il carcere e la Casa in cui mi trovo? Che nella nostra Casa si accende la fiaccola della speranza. Sant’Agostino diceva che la speranza ha due vie: l’indignazione e il coraggio. L’indignazione è capire quello che non va, il coraggio è cambiarlo. Ma per cambiare occorre la comunità; io da solo non posso farlo. Io posso alzare la mano per chiedere aiuto, ma occorre qualcuno che mi aiuti a sorreggere quella mano. Io vi racconto la mia storia e la racconto insieme a mia sorella che poi mi ha perdonato e che rappresenta la mia famiglia. Io da piccolo ho subito delle violenze psicologiche e di altro tipo. Mi sono chiuso in me stesso e non ho più parlato, ho percepito di non essere amato (anche se in realtà non era così). Crescendo questo mi ha portato ad essere un bambino diverso, a non avere relazioni, ad essere uno, nessuno, centomila. Mi sono fatto sempre la guerra dentro di me. Mi sono sentito uno sbaglio, lo sbaglio di Dio, perché una persona che non riceve un bacio, un abbraccio non è un uomo, è appunto uno sbaglio. Mi ponevo una domanda: cosa ho fatto per dover subire tutto questo? Ho cercato di trovare sfogo nella musica e nel lavoro, ma quando quel lavoro è crollato, sono crollato anche io. Per distruggere me stesso ho commesso un reato, che non ha distrutto soltanto me, ma anche la mia famiglia. Nella comunità però mi hanno insegnato a mettermi in ginocchio con le mie ferite e grazie alle persone speciali che ci sono, le mie ferite sono diventate feritoie. Soprattutto mi ha aiutato Andrea, che mi ha detto: “Tu sei prezioso ai miei occhi”; mi ha dato un lume di speranza, è stato il mio papà e mi ha fatto capire che l’amore è qualcosa di più grande di noi. Andrea è la mia perla. La perla non è altro che la malattia della conchiglia. Sta a noi guardare chi hai di fronte e dire se quello è una malattia o è una perla. Noi possiamo guardare l’altro per quello che ha fatto o per quello che non ci piace oppure andare oltre e guardarlo come perla.

Ora passo la parola a mia sorella che mi ha perdonato. Grazie al suo perdono io ho riconquistato la mia libertà. Grazie al perdono della mia famiglia io ho ritrovato un’appartenenza, oltre a quella della comunità. Adesso mi sento di nuovo figlio e fratello.

TESTIMONIANZA DI EVELINA, SORELLA DI ANTONIO

Voglio parlare di perdono. Perché il perdono è un dono non solo per chi lo riceve, ma anche per chi lo dà, perché libera dalla rabbia, dalla delusione, permette nuovamente di amare. Perdono non vuol dire dimenticare. Quello che è stato fatto, però, è il passato e magari può continuare a procurare ancora delle ferite, ma il perdono è guardare l’altro ed amarlo così come è. Per perdonare, bisogna sentirsi perdonati e io mi sono sentita perdonata da Dio, perché anche io mi chiedevo che cosa avessi fatto di male per portare mio fratello a compiere un reato e mi sentivo bisognosa di perdono. Perdonare se stessi è molto più difficile che perdonare l’altro. E’ un cammino. Ma la pace solo così può essere costruita, perché la pace è un “per – dono”, è un dono che faccio a me, a lui e agli altri.

TESTIMONIANZA DI LASSINA DOUMBIA originario del Mali

Sono molto emozionato per la vostra presenza, che accende la speranza della pace e di un futuro migliore, senza violenza, cosa che per molti di noi, originari dell’Africa, è solo un’immaginazione. Sono partito da casa mia a 15 anni, non per scelta, ma per costrizione, a seguito di un problema familiare e, attraversando il deserto. sono arrivato fino in Libia, dove mio cugino mi ha tenuto con sé per circa un anno. L’intervento armato della NATO per portare la democrazia in Libia uccidendo Gheddafi, ha creato un grande caos non solo in Libia, ma anche in Mali, dove vive la mia famiglia, perché, dopo la morte di Gheddafi, il Mali è stato occupato da diversi gruppi terroristici e l’esercito, con un colpo di stato, ha messo fine al governo democratico. Per questa situazione ho chiesto asilo politico, che fortunatamente mi è stato concesso dopo un anno. Da qui è iniziata la mia nuova vita: ora sono un cittadino italiano e ho il diritto e il dovere di difendere i valori italiani. Questo è stato molto importante per me, perché mi ha fatto capire che, nonostante ci siano tante guerre, c’è qualcuno che riconosce il valore di essere umano. Essere diventato cittadino italiano per me rappresenta quella pace che molti considerano immaginazione.

 

 SECONDA TAPPA: IL DEBITO

TESTIMONIANZA DI GABRIELE GUZZI: Economista Università di Cassino.

La prima cosa che voglio sottolineare è che il popolo della pace c’è: esiste, si aggrega, si sa organizzare. Non è un popolo di passivi, remissivi, che vogliono rinunciare a ogni conflitto, perché è un popolo combattivo, che però vuole il disarmo del cuore, che è la cosa più difficile. Fare una battaglia non violenta per la pace non ci viene affatto naturale, richiede una rivoluzione dei cuori, delle menti, perché il vero linguaggio economico, politico, familiare, sociale della pace si scontra con la realtà.

Penso che sia profetico il fatto che questo evento coincida con la chiusura dell’anno. Si parla spesso, a proposito di questi due anni di guerre, di “scontro di civiltà” tra oriente e occidente, tra religioni. Io credo che ci sia uno scontro tra una guerra armata e una guerra che riguarda gli aspetti economici e finanziari; riguarda il debito che ormai ha creato un grosso squilibrio tra i popoli, come ha detto anche papa Francesco.

Il tema della marcia è “Rimetti a noi i nostri debiti. Concedici la tua pace”. Il primo punto da capire è che questa economia si fonda su un delicato rapporto tra debito e colpa. Walter Benjamin diceva che il capitalismo è un indulto che non produce espiazione, ma solo colpa. L’attuale sistema economico capitalistico è il più anticristiano possibile; non punta alla remissione del debito, ma alla sua espansione. Questo tipo di economia è volto ad accumulare cose, accumulare denaro, che sono surrogati di quel rapporto di fede, di fiducia profonda tra le persone, che non può essere solo un’esperienza spirituale, ma deve governare anche l’economia. Io credo che questo sia il clima antropologico, direi teologico, che sta dietro questo sistema economico. Dobbiamo cambiare la logica che sta dietro questa economia, dobbiamo cambiare mentalità, altrimenti rimarremo alla superficie, non riusciremo a colmare il vuoto che si è creato.

Negli ultimi cinquant’anni questo sistema economico ha preso purtroppo una piega ancora più terribile per quanto riguarda i paesi più poveri, che ogni anno accumulano 450 miliardi di dollari di debito solo di interessi. La maggior parte del denaro viene concessa non dagli Stati, per i quali è difficile pensare a una forma di alleggerimento, ma da grandi fondi finanziari privati, che spesso non concedono questi soldi in cambio di interessi, ma in cambio di materie prime. Questi privati gestiscono tutto della nostra società e lo fanno non con una logica di bene comune, di condivisione, ma per il proprio profitto, per aumentare il valore di scambio. Noi dobbiamo cambiare la gerarchia di valori di questa società. Il denaro non è un elemento aggregante, ma è un elemento individualizzante ontologicamente. Disgrega tutti gli altri valori: il valore del bene, del bello, della giustizia.

Cosa è necessario fare sul piano politico, che si aggiunga a questa rivoluzione culturale e spirituale?

Io credo che si debba cambiare radicalmente il sistema monetario internazionale. Come è accaduto con gli accordi di Bretton Woods, stipulati nel 1944 tra i principali Paesi industrializzati del mondo occidentale, che prevedevano un insieme di regole economiche per controllare la politica monetaria internazionale e furono operativi per circa un trentennio.

Purtroppo, molto spesso questi progetti avvengono dopo grandi guerre. Invece la sfida è che essi avvengano in tempo di pace. L’economia non deve essere la continuazione della guerra con altri mezzi.

Concludo con un brano del Messaggio per la Giornata della Pace di Papa Francesco: “Coloro che intraprenderanno, attraverso i gesti suggeriti, il cammino della speranza potranno vedere sempre più vicina la tanto agognata meta della pace. Il Salmista ci conferma in questa promessa: quando «amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11). Quando mi spoglio dell’arma del credito e ridono la via della speranza a una sorella o a un fratello, contribuisco al ristabilimento della giustizia di Dio su questa terra e mi incammino con quella persona verso la meta della pace. Come diceva S. Giovanni XXIII, la vera pace potrà nascere solo da un cuore disarmato dall’ansia e dalla paura della guerra”.

TESTIMONIANZA DI JOHN MPALIZA: attivista congolese di Peace Walking Man Foundation

Vorrei ripartire dalle parole del professore, ma mi trovo molto in difficoltà perché, dopo 32 anni trascorsi in Italia, ho perso un po’ la speranza. Certo una marcia come questa è importante, ma poi tutto dipende da quello che si farà da domani in poi, altrimenti saremo sempre al punto di partenza. Scusate se invece della bandiera della pace porto al collo quella del Congo, ma non riesco più a distaccarmene, ha percorso con me tanti chilometri.

Il Congo è il paese da cui provengono quasi tutte le materie prime di cui il mondo ha bisogno e che vengono estratte in condizioni di lavoro disumane. Io, come cittadino italiano ed europeo, mi vergogno di questa situazione in cui ho perso anche dei familiari e che ha fatto dieci milioni di vittime in tredici anni. Sono contento di essere stato chiamato a rappresentare il cosiddetto terzo mondo, il sud del mondo, che in realtà è il mondo più importante in termini di demografia e di risorse umane e materiali. L’Africa non è il continente più povero del mondo, ma è il continente più impoverito del mondo, perché qualcuno ha voluto questo.

Il Papa nell’enciclica “Laudato si’” ha parlato del debito che abbiamo nei confronti della Madre Terra e delle nuove generazioni e dice che bisogna pagare il debito verso i paesi poveri: e quando si parla di Paesi poveri si pensa subito all’Africa. La stessa cosa l’ha detta Giovanni Paolo II nel 2000 e temo che dopo questo Giubileo si continuerà a dire la stessa cosa.

Noi non siamo d’accordo su questo. Io chiedo: chi è il vero debitore del mondo? Non è l’Africa, L’Africa è la vittima, è umiliata. Quando papa Francesco è venuto in Congo ha detto: “Il Congo è un diamante. Non è una miniera da sfruttare”. Io dico che la mano che da cinque secoli con la colonizzazione è stata posta sull’Africa deve essere tolta. E’ l’Occidente che ha un debito con l’Africa, debito di pace e di dignità. All’Africa è stata tolta la dignità. Noi dobbiamo ogni anno mendicare il denaro. L’Italia ha 3 miliardi di debito; tutta l’Africa ha oltre 1000 miliardi di debito: un continente, di 54 Paesi, che ha tutte le risorse del mondo, ha un debito enorme.

C’è un sistema che vuole che l’Africa rimanga debitrice e sia così povera. Non si può parlare di remissione del debito senza tenere conto di quello che disse Thomas Sankara, giovane presidente del Burkina Faso nel 2004, il quale si è detto certo che l’Africa cambierà. L’Africa è un continente giovane, in cui l’età media è 19 anni; l’Africa, quindi, è il futuro del mondo: ha la mano d’opera che l’Europa non ha, le risorse minerarie, che l’Europa non ha.

Chiudo ricordando che il 25 agosto 1960, il presidente Lumumba ha ricevuto tutti i presidenti dei Paesi indipendenti dell’Africa, ha ricordato che la loro indipendenza è stata firmata con il sangue e ha richiamato tutti i Paesi a formare un blocco panafricano. Noi dobbiamo sapere che la forza l’abbiamo noi. Se siamo uniti, l’Africa può avere un posto nel mondo. Ora non ha neppure un posto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

L’’Africa, inoltre, deve avere una politica di neutralità (né pro Russia né pro Occidente), abbattere le barriere linguistiche e ricevere una formazione.

Papa Francesco ha detto che l’Africa è il passato, il presente e il futuro. E magari, in futuro, molti giovani europei andranno a cercare il lavoro in Africa.

 

 TERZA TAPPA: IL DISARMO

TESTIMONIANZA DI DON FABIO CORAZZINA

Quando parliamo della pace pongo sempre tre questioni e tre domande molto semplici: dove sei? Che cosa, lì dove abiti, costruisce la pace? Tu che cosa fai per la pace?

Io sono di Brescia e la mia è una terra “armata”.

Abbiamo, innanzitutto, la fabbrica Beretta e tutto il comparto delle armi leggere. L’economia, quindi, è prevalentemente una economia armata. Qui due persone, tra cui Elio Pagani di Pax Christi, scelsero l’obiezione di coscienza, scelsero cioè di giocarsi il posto di lavoro, chiedendo di poter produrre strumenti di pace e non armi. Chi di noi oggi penserebbe a una cosa del genere?

C’è inoltre l’aeroporto di Montichiari, dove esiste un settore da cui passa il trasporto di armi che vengono prodotte nel bresciano e poi portate in tutto il mondo (anche armi nucleari). Un uomo, Luigi, che pretendeva di sapere che cosa succedesse realmente lì, è stato invitato a stare a casa dieci giorni e a lasciar perdere.

Sempre vicino a Brescia, c’è anche l’aeroporto militare di Ghedi, dove, secondo il programma NATO, sono conservate bombe atomiche di potenza variabile (quindi c’è una storia di decenni di bombardamenti che partono da casa mia). Poiché c’era un progetto di ampliamento dell’aeroporto, si è creata un’alleanza di contadini che si sono opposti e hanno fermato momentaneamente l’ampliamento (ma poi è stata scavata un’area sotterranea).

In questa situazione sono nate anche iniziative per la pace.

E’ nato l’OPAL (Osservatorio sulla produzione di armi leggere), che cerca di capire come si producono gli alti profitti che la Beretta sta ottenendo in questo periodo.

Negli anni ’80 è stata approvata la legge 185 che chiedeva un controllo sulla produzione, su dove venivano vendute queste armi e sui sistemi bancari di pagamento. Ma questa legge è stata pian piano disattesa.

Tempo fa il premio Nobel per la pace ha fatto una campagna per l’abolizione delle armi atomiche, ma nessun governo italiano ha voluto partecipare agli incontri per realizzarla.

Ma anche quando nel Bresciano è nato un coordinamento con 41 amministrazioni e tante associazioni della società civile, solo due parrocchie su 440 hanno aderito, non hanno voluto compromettersi.

Cinque punti perciò mi preme sottolineare:

  1. Le nostre comunità cattoliche si sentono esentate dall’impegno per il disarmo così come tanti cattolici e pacifisti in parlamento e nelle amministrazioni.
  2. Stiamo creando una giustificazione etica e culturale alle armi come risposta al bisogno di sicurezza e di legittima difesa
  3. Dopo 80 anni dalla Seconda guerra mondiale, stiamo ancora discutendo sulla opportunità dell’economia armata per dare lavoro alle persone
  4. Abbiamo abbandonato il tema dell’obiezione di coscienza
  5. Si nota una diffusa irritazione e un rifiuto del Vangelo di Gesù e della sua proposta di non ricorrere alla violenza.

Don Tonino Bello diceva: “Se vuoi cambiare il mondo, devi saper coniugare tre verbi: denunciare, annunciare, sacrificare.