L’enciclica “Pacem in terris”
Mons. Giovanni Ricchiuto, presidente Pax Christi
Giovanni Ribuoli, Comunità di Sant’Egidio
Realizzare la pace sembra un’utopia, una missione impossibile in questo mondo, dove, nonostante il trascorrere degli anni e a dispetto delle dichiarazioni di principio, si continua a fare della guerra uno strumento di affermazione della propria potenza, mentre gli appelli, le denunce, le condanne sembrano parte di un rituale scontato e inefficace.
La tentazione dello scetticismo è perciò sempre in agguato. E forse serpeggiava anche tra il pubblico che giovedì scorso, a Palazzo Antaldi, ha partecipato all’incontro promosso dal Ceis e dal suo presidente mons. Franco Tamburini, in occasione del sessantesimo anniversario dell’enciclica “Pacem in terris” di Giovanni XXIII (11 aprile 1963).
Per parlarne sono intervenuti, alla presenza dell’arcivescovo Sandro Salvucci e sotto la conduzione di Giuliana Ceccarelli, mons. Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi italiana e Giovanni Ribuoli, della Comunità di Sant’Egidio di Roma.
Nessuno dei relatori ha nascosto le difficoltà che la pace incontra. Anche il contesto geopolitico attuale – lacerato dal conflitto ucraino e da una trentina di guerre nel mondo – non risulta meno drammatico di quello degli anni ’60, in cui la guerra del Vietnam, ma soprattutto la crisi dei missili di Cuba e la costruzione del muro di Berlino, segnarono i momenti più critici della “guerra fredda” tra USA e URSS, con la minaccia incombente di una guerra nucleare.
Una minaccia ancora oggi non scongiurata, nonostante le dure parole di Papa Giovanni, che con forza dirompente scrisse: “Alienum est a ratione” (“è roba da matti”, come tradusse don Tonino Bello) pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia, senza considerare le distruzioni immani e i dolori immensi che l’uso delle armi apporterebbe alla famiglia umana.
“Non si può ricorrere agli armamenti avendo come pretesto la difesa della pace, ha detto il Vescovo Ricchiuti; non si può parlare di guerra giusta; non si può neppure chiamare pace lo stallo tra due potenze che non si dichiarano guerra solo perché hanno le armi vicendevolmente puntate contro”. E ha aggiunto: “Occorre mettere al bando le armi nucleari, occorre disarmare il linguaggio, occorre sradicare la cultura della guerra”.
Ma, appunto, tutto questo è possibile? E “come” è possibile, se persino Papa Francesco, nonostante la “Fratelli tutti” e i continui richiami alla pace, sembra inascoltato? Può l’utopia trasformarsi in profezia?
Illuminanti, a tal proposito, sono le parole – come ha ricordato Giovanni Ribuoli – pronunciate da Giovanni Paolo II nel primo incontro interreligioso per la pace ad Assisi (1986): “La pace passa attraverso mille piccoli atti della vita quotidiana. A seconda del loro modo quotidiano di vivere con gli altri, gli uomini scelgono a favore della pace o contro di essa. Ogni parola che crea inclusione è un lavoro per la pace”.
La pace, cioè, non è un ideale astratto, così alto da farci sentire impotenti. Non è campo esclusivo di specialisti, sapienti, strateghi, ma è un cantiere aperto a tutti. Si può costruire la pace, anche senza pretendere di cambiare il mondo intero.
Lo ha testimoniato il giovane membro della Comunità di Sant’Egidio, che ha raccontato dei Corridoi umanitari attivati, del Servizio mensa per i senza fissa dimora, della Scuola della pace per bambini della periferia romana: esperienze di incontri umani, attraverso cui persone concrete – la signora Maria, i bambini Fabio ed Elias, le donne e gli uomini fatti uscire dai campi profughi della Libia, della Siria, dell’Afghanistan, del Pakistan – trovano amore, dignità, speranza.
Troppo poco rispetto alle immani esigenze di pace del mondo?
Probabilmente sì. Ma i cristiani sanno che il Signore Risorto rende assoluto ogni gesto di bene, per quanto piccolo e relativo sia. E libera perciò da ogni possibile retorica l’affermazione che “salvare una vita significa salvare il mondo intero”.
Paola Campanini, UCS Pesaro