CONVEGNO DIOCESANO “DI UNA SOLA COSA C’E’ BISOGNO – su Rossini TV – Sabato 15 ottobre ore 16.10 – Domenica 16 ottobre ore 9.00

INTERVENTO DI S.E. MONS. SANDRO SALVUCCI

in occasione del Convegno Diocesano “Di una cosa sola c’è bisogno”

Pesaro, Hotel Baia Flaminia

26 settembre 2022

 

Buonasera a tutti e ben trovati. Non vi nascondo la gioia e l’emozione di ritrovarci insieme. Grazie per aver risposto a questa chiamata così numerosi.

Vi devo dire che desideravo tanto iniziare l’anno pastorale con voi, attraverso il vostro “convenire” (verbo che si sposa perfettamente con il cammino sinodale) da parti diverse per vivere un’esperienza di condivisione e di ascolto, da cui poi ripartire insieme, anche se per strade diverse.

Per i cristiani il convenire più importante, il culmine, la fonte della vita cristiana è l’Eucarestia, perché lì siamo convocati nell’ascolto della Parola e nella condivisione del pane spezzato che è il corpo del Signore. Il nostro convenire qui questa sera, dunque, è nell’ottica dell’Eucarestia. Siamo del resto nel clima del Congresso Eucaristico Nazionale che si è appena concluso a Matera, al quale la Chiesa di Pesaro non ha potuto partecipare direttamente perché impegnata con il Santo Patrono.

Un’altra piccola premessa è che il Convegno Pastorale mi rimanda a quando ero ragazzo, coinvolto in un’esperienza di gruppo ecclesiale e ricevevo, a fine estate, l’invito del Vescovo a “convenire” in quella che, nella mia diocesi di Fermo, si chiamava “Settimana Pastorale”. Quindi fin da ragazzo ho sperimentato l’importanza di momenti come questi.

Veniamo da varie parrocchie, da varie associazioni, siamo persone impegnate a tanti livelli della vita ecclesiale e della società. Questo nostro convenire perciò acquista un valore grandissimo. Quello che possiamo qui condividere è il dono dello Spirito Santo, che abbiamo pregato affinché sia Lui a guidarci, perché quello che può nascere da qui, toccare il nostro cuore e farcelo ardere sia personalmente che comunitariamente, è una specie di “la” che viene dato a un nuovo anno sociale e pastorale. Riponiamo tante speranze, tante attese, ma anche tante preoccupazioni e ansie: un momento come questo, quindi, è molto importante. Il mio compito è solo quello di avviare il motore, di dare lo start al cammino che ci attende. Siamo tutti chiamati ad essere protagonisti e responsabili di questo percorso.

Abbiamo ascoltato il brano del Vangelo di Luca (Lc 10,38-42) che è di una forza straordinaria e il mio compito è quello di condividere con voi una lettura “spirituale” (ma concreta per la vita dei cristiani) a partire da questo brano.

 

Tale racconto evangelico è l’icona scelta dalla Chiesa Italiana per il secondo anno del percorso sinodale. La scena si svolge in una casa, in un villaggio, Betania, distante 3 chilometri da Gerusalemme. Quando sono stato in Terrasanta per un tempo di preghiera e di riflessione personale, ho camminato sempre in compagnia della Bibbia, la cui lettura in quei luoghi sacri assumeva un valore straordinario e particolare. A metà della mia permanenza, ho scoperto che la lettura del giorno coincideva proprio con il brano evangelico di questa sera. E allora ho deciso non solo di andare a Betania, camminando a lungo per raggiungere il villaggio, ma anche di iniziare l’anno pastorale proprio da qui, da Betania. Questa idea, dunque, è nata proprio il 17 luglio, sul luogo fisico dove sorgeva la casa di Marta, Maria e Lazzaro.

 

Questo brano del Vangelo si inserisce nel contesto del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove si consegnerà alla morte per noi. Pochi versetti prima (Lc 9,51) Luca ci dice: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”.

Il brano che invece precede immediatamente l’ingresso di Gesù a Betania è la famosissima parabola del buon samaritano, che Gesù racconta a un dottore della legge che gli chiede: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” La risposta di Gesù la conosciamo tutti: un uomo incappa nei briganti, viene malmenato, derubato, lasciato mezzo morto. Passa un levita, vede e va oltre. Passa un sacerdote che proviene dal servizio al tempio, vede e va oltre. Passa un samaritano, uno straniero, vede e gli si fa vicino, si prende cura di lui. Lo mette sopra il suo cavallo, lo porta in una locanda, lo affida alle cure dell’oste e poi prosegue il suo viaggio, dicendo all’oste che se avesse speso di più, lo avrebbe rimborsato al suo ritorno. Gesù chiede al dottore: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?” Il dottore risponde: “Presumo chi ha avuto compassione di lui”. “Bene, va’ e anche tu fa’ così”.

Il brano che abbiamo ascoltato ritorna sulla questione del “fare”. Ma precisamente in che cosa consiste questo “fare”? Ci può essere un fare tante cose, anche buonissime, ma in modo agitato e “perverso” (nel senso di “privo di verso”), che non parte dall’essenziale e non coglie la sostanza, il senso dell’agire. C’è invece un “fare” che è “ascoltare” e che cambia la nostra vita, ci rende creature nuove, uomini nuovi. Il Vangelo di Luca presenta spesso due personaggi antitetici per indicare due atteggiamenti che possono convivere in noi lettori: il figliol prodigo e il fratello maggiore; il pubblicano e il fariseo; il ricco Epulone e il povero Lazzaro; qui Marta e Maria. Il Signore viene a noi in modi diversi e noi lo possiamo accogliere o come Marta o come Maria; spesso in noi c’è un po’ dell’una e un po’ dell’altra.

 

Marta è “distolta” dai molti servizi, vuole fare bella figura, vuole essere brava, come spesso accade nelle case quando arriva qualcuno: si è distratti da altre preoccupazioni e si perde la cosa più importante, l’incontro con l’ospite. Marta critica la sorella, che non fa niente e critica anche Gesù che l’approva. Per lei la presenza di Gesù è più un fastidio che un piacere, è una fatica, un affanno.

La sua è una religiosità simile alla nostra: siamo persone buone, facciamo tante cose, però ci lamentiamo: “Siamo sempre gli stessi, mi devo impegnare sempre io per primo” ecc.

 

Per Maria invece la presenza del Signore è gioia. Anche se i biblisti sono incerti se questa Maria sia la stessa Maria Maddalena che si getta ai piedi di Gesù e li unge con oli profumati, l’ipotesi è affascinante: è come se Maria si fosse un po’ persa per strada e poi fosse, seguendo Gesù, “tornata a casa”; Maria, perciò, aveva già sperimentato cosa significa incontrare Gesù, gli aveva versato olio e profumo ai piedi, li aveva bagnati con le lacrime e asciugati con i capelli; e ora la ritroviamo ai piedi di Gesù, ad ascoltarlo. Il passaggio da Marta a Maria è la conversione dalla legge al Vangelo.

La nostra formazione è stata spesso impostata sulla legge, sui comandamenti, sulle norme. Abbiamo respirato una formazione moralistica, come se Gesù fosse un codice di vita da rispettare e Dio fosse come l’occhio di un “Grande fratello” che ti guarda o come un autovelox, pronto a cogliere ogni tua infrazione. Ma i giovani non se ne fanno nulla di un Vangelo così e fanno bene perché questo non è Vangelo. Il Vangelo non è un osservare i comandamenti, un “fare”, un rispettare una dottrina precisa, ma è un “essere”, qualcosa che ci cambia dentro: è l’incontro con il Signore che trasforma dal di dentro. Nella seconda lettera ai Corinzi (2Cor 5,14) Paolo esordisce così: “L’amore del Cristo infatti ci possiede”. Paolo era un esperto di Legge, aveva una vita irreprensibile, ma aveva capito che non è la legge che salva, è l’incontro con Cristo, rispetto al quale tutto il resto risulta spazzatura. Maria, seduta ai piedi di Gesù nella posizione del discepolo, ascolta. Questo dice tutto. Gesù stesso, poco prima di questo passo del Vangelo di Luca, risponde alla folla che lo circonda: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).

L’ascolto della Parola ci trasforma. Maria ascolta perché questo le ha cambiato la vita. Diventare come Gesù è il fine della vita, non solo nel senso di ciò a cui tende la vita, ma anche nel senso di ciò che le dà significato, già da ora, non solo per l’aldilà. A Maria l’ascolto della Parola dona l’agire di Dio, che è amare; fa l’esperienza dell’essere amata e questo cuore cambiato le donerà l’agire di Dio che è amare, l’unica cosa che conta.

Che cosa bisogna fare allora? Ascoltare, perché diventiamo ciò che ascoltiamo. Ascoltare è “accogliere il seme”. Il seme è simbolo della Parola. Il frutto è della stessa natura del seme. Ecco che, se il seme della Parola è depositato nella mia vita, il frutto è la vita stessa di Gesù, l’agire stesso di Gesù, l’amare stesso di Cristo. Ascoltare è fare entrare l’altro dentro di sé. Noi facciamo fatica ad ascoltare; abbiamo subito la risposta mentre l’altro ci parla. Quando ascoltiamo davvero con il cuore e con la mente liberi da barriere e pregiudizi, senza fretta? Non è facile l’ascolto. Per questo spesso sostituiamo l’ascoltare con il fare. Come con i figli: “Non faccio mancare niente ai miei figli, faccio di tutto per loro!”. Vero, ma forse manca l’ascolto, il “fare” dell’ascolto.

In contrasto con l’ascolto di Maria, seduta ai piedi del Signore, c’è il vorticoso affannarsi di Marta, risucchiata dalle molte cose da fare. È il rischio che possiamo vivere anche noi, presi dai molti servizi. Penso alla vita delle nostre parrocchie o delle associazioni in cui siamo impegnati. Marta vuole compiacere il Signore. Pensa di potersi guadagnare, con il suo fare, la stima del Signore. Questo è il tema centrale della predicazione di San Paolo: non sono le opere che salvano, ma Cristo, l’amore gratuito di Dio che si è manifestato mediante Cristo morto e Risorto. Non ti salvano le opere, ma la Grazia. Noi generalmente siamo come Marta, pensiamo di fare di tutto per piacere a Dio e l’equivoco sta nel fatto che non siamo noi a dover piacere a Dio (perché è certo che a Lui piacciamo, “egli ci ha fatti e noi siamo suoi”, come dice il Salmo 100), ma è Dio che vuole piacere a noi.

Il peccato del giusto è affannarsi per rendersi buono Dio. Come Pietro che grida: “Ti seguirò ovunque, darò la vita per Te!”. Pietro invece deve capire che è Gesù che dà la vita per lui. Oppure quando dice “Tu non mi laverai i piedi in eterno!”. Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8): cioè, se non ti amo fino a dare la vita per te, tu sei perso. Non è il fare che salva, ma è innanzitutto il lasciarci amare. Questo è l’equivoco; se invece mi rendo conto che è Dio a prendere l’iniziativa e che mi ama immensamente, allora risponderò al suo amore perché sono amato. Se Dio mi ama, allora ho il piacere di amare, la gioia di amare. Ho il piacere e il gusto di vivere di questo amore. Potrò amare come sono amato. Noi pensiamo che il dovere dell’uomo sia rispettare i comandamenti, amare Dio e il prossimo. Questo non è sbagliato. Però se ci limitiamo a questo, dimentichiamo la premessa che rende possibile tutto questo: prima che tu possa fare qualcosa per amare Dio, c’è Dio che ama te. Questa è la buona notizia che tutti aspettano. C’è un mondo arido, assetato di chi gli annuncia con la vita che è amato, che non deve fare niente per guadagnarsi l’amore, che l’amore è gratuito, è Grazia. Qui ci sarebbe tanto da dire sull’agire pastorale.

Marta si permette di criticare Gesù, si sente trascurata, non apprezzata, come i Farisei che criticano, mormorano, perché Gesù accoglie i peccatori. Cerca un riconoscimento da parte del Signore contro la sorella. Vuole che si sappia che ciò che importa è quello che fa lei e non la fannullaggine di Maria. Succede anche nelle nostre parrocchie. Ci lamentiamo che siamo pochi, sempre gli stessi e poi vogliamo che gli altri facciano quello che diciamo noi. È una psicologia molto spicciola, ma è quello che capita. Se per essere cristiani coerenti dobbiamo essere risucchiati dal fare, sentirci trascurati e soli, affannati e agitati, allora essere discepoli del Signore non ha nulla di attraente e infatti molti non lo trovano affatto interessante. Qui c’è la grande e difficile conversione da fare: dall’uomo che “vuole meritare”, all’uomo che ascolta il Signore, lo accoglie e si lascia amare da Lui. “L’amore di Cristo ci possiede” (2Cor 5,14) e “anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” (Fil 3,12).

È da notare come Gesù ci tenga molto a Marta, ripete due volte il suo nome, come in tutti i racconti di chiamata nella Bibbia (Dio chiama “Mosè, Mosè” o nella conversione di San Paolo: “Saulo, Saulo”). È proprio Marta, infatti, che ha bisogno di conversione, di cambiare, perché Maria è già arrivata, ha fatto già il percorso che l’ha portata a scoprire che “Di una cosa sola c’è bisogno” (Lc 10,42): ascoltare Dio. È la cosa più importante anche nelle relazioni tra noi, con gli altri. Puoi fare tante cose per l’altro, ma non basteranno mai, c’è sempre tanto altro da fare che rimane. Se non ascolto l’altro non ho fatto nulla. È ciò che il Padre dice del Figlio Gesù nella Trasfigurazione (Luca 9,35): “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. Come pure Maria nelle nozze di Cana dice del Figlio ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5). Non è sbagliato il fare, ma occorre fare quello che Egli ci dice, dopo che lo abbiamo ascoltato. Dall’ascolto nasce l’agire. Scopriamo la nostra identità di figli nel Figlio Gesù. È per questo che il racconto di Marta e Maria è seguito dalla richiesta degli apostoli: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1) e dall’indicazione di Gesù del “Padre nostro”. Di una cosa solo c’è bisogno: accettare di essere amati, lasciarsi amare. Finché Marta non sarà liberata dall’ingombro del suo io, dall’invadenza del suo io, che vuole approvazione, riconoscimento, la sua preghiera sarà disturbata, non sarà capace di dire: Eccomi, Padre, “sia fatta la tua volontà”.

Di una cosa sola c’è bisogno: scoprire l’amore di Dio per noi che ci fa essere ciò che siamo. Se scopriamo di essere amati, possiamo amare a nostra volta e diventare uguali a Lui. L’ascolto ci fa entrare nella Trinità, nella danza di gioia tra Padre e Figlio.

 

“Maria ha scelto la parte migliore”, “buona” (per essere fedeli all’originale greco). Quindi vuol dire che l’altra è cattiva? Nel Vangelo non c’è contrapposizione tra azione e contemplazione, perché la vera azione è ascoltare. L’agire che non nasce dall’ascolto del Signore è sfasato, stonato, è affanno, che poi diventa critica degli altri e di Dio.

Papa Francesco, nella Evangelii gaudium, descrivendo le tentazioni degli Operatori Pastorali afferma che una di queste è la “mondanità spirituale” (espressione tratta da Henri De Lubac): una malattia diffusa più di quello che immaginiamo tra noi battezzati. Al n. 93 infatti scrive: “La mondanità spirituale che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale”. È esattamente la tentazione di Marta e nostra.

Dall’ascolto invece nasce una vita trasformata dall’amore. È questa la parte buona che Maria ha scelto e che non le sarà tolta, perché qui è l’inizio della vita credente, della vita dell’autentico discepolo. L’ascolto della Parola, e non il fare, è il fondamento di tutto. È significativo che nella prima comunità di Gerusalemme, raccontata negli Atti degli apostoli al capitolo 6, davanti alle tante necessità che emergevano (i cristiani di lingua greca si lamentavano contro quelli di lingua ebraica perché le loro vedove non erano adeguatamente sostenute) gli Apostoli dicano: “Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (At 6,2-4). Di una cosa sola c’è bisogno. Senza il primato della Parola, la Chiesa diventa un’impresa sociale, un’impresa di opere pie, una Ong.

Alla luce di questa Parola, dunque, tutti siamo chiamati ad una duplice conversione: personale e comunitaria. I nostri ministeri nascono dall’affanno e dall’agitazione di Marta o nascono dall’ascolto della Parola e dall’accoglienza del Signore di Maria?

Oggi diamo il via al secondo anno di ascolto del percorso sinodale, in sintonia con le Chiese d’Italia, inaugurando cinque cantieri. Vi invito a vivere un’esperienza di ascolto aperto, franco, senza lasciarvi dominare dalla preoccupazione di “cosa dobbiamo fare”. Io sono qui da pochi mesi e ho bisogno di più tempo per ascoltare, per poter fare delle scelte guidate dallo Spirito, perché “se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori” (Sal 127).

Una prima indicazione pastorale semplice che voglio lasciarvi per il nuovo anno pastorale è iniziare ogni riunione, ogni appuntamento pastorale, anche il più tecnico, parrocchiale o diocesano, con l’ascolto, dando il primato alla Parola meditata e pregata. Auspico, inoltre, che nelle parrocchie o nelle unità pastorali possano nascere o svilupparsi delle iniziative per insegnare a pregare e ad ascoltare la Parola, delle vere e proprie “Scuole di preghiera e di ascolto della Parola”. Nei cantieri che andremo ad aprire, possiamo condividere le buone pratiche, le esperienze che già viviamo.

La seconda provocazione che vi consegno è questa: dobbiamo chiederci come aiutarci a camminare insieme compiendo i passi di una conversione missionaria. Siamo troppo chiusi tra di noi, nelle parrocchie e nelle nostre stanze.

 

Voglio ricordare don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, prete di Firenze, morto nel 1967, voce profetica per i suoi tempi (e anche per i nostri!), intelligenza vivissima, preparazione straordinaria, cresciuto in una famiglia anticlericale, con madre ebrea non praticante, battezzato solo per convenienza, per essere protetto dalle persecuzioni razziali, convertito poi al cattolicesimo e diventato sacerdote. Nel libro “Esperienze pastorali” (edito nel 1957), riferito alle esperienze vissute da cappellano nella parrocchia San Donato di Calenzano in provincia di Firenze, a un certo punto si trovano due fotografie che ritraggono una processione col SS. Sacramento e una piccola folla di persone al di qua e al di là della strada:

 

  • (foto1) – “Passa il Signore. Serenata di fiori. Veli bianchi. Festa di Paese. Trionfo della fede? Quel gruppo d’uomini che segue il Signore non è la parrocchia, è solo una chiesuola senza peso. La parrocchia si gode lo spettacolo e si tiene a dovuta distanza.
  • (foto2) – “Due preghiere. Identico è il pensiero dei due preti in processione: le 93,2 % pecorelle che restano fuori. Ma diverse sono le loro preghiere:

La preghiera del preposto: “Perdonali perché non sono qui con te”.

La preghiera del cappellano: “Perdonaci perché non siamo là con loro”.

Credo che non ci sia bisogno di aggiungere altri commenti e considerazioni, bastano queste parole come pungolo per la nostra condivisione.

Il Signore ci doni di provare sempre una sana inquietudine verso i fratelli che sono assenti. Amen.