OMELIA DELL’ARCIVESCOVO SANDRO SALVUCCI
in occasione dell’incontro delle Famiglie di Metropolia
Pesaro, Parco Miralfiore 26 giugno 2022
(Trascrizione non rivista dall’Arcivescovo)
Abbiamo ascoltato nel Vangelo di Luca che Gesù prese la ferma decisione di andare a Gerusalemme e del suo cammino, da questo momento, il Vangelo parla costantemente.
Che cosa attende Gesù a Gerusalemme? Lo attende il mistero della passione, della morte, della croce. Ma allora il suo è un viaggio disperato? Segna la fine tragica della sua vicenda? No.
La consapevolezza che Gesù ha maturato è che per lui Gerusalemme è il luogo del compimento della sua missione, che appunto trova il vertice nell’amore. La croce è l’amore più grande e quindi il cammino di Gesù è il cammino verso l’amore più grande.
Questo è ciò che Dio chiede a ciascuno di noi. Dopo la decisione di Gesù, infatti, seguono nel Vangelo tre incontri che evidenziano la necessità di seguire Gesù, ma anche le fatiche e le tentazioni legate al seguirlo.
Questi incontri rappresentano tutti noi.
Nel primo, in cui un tale dice a Gesù “Ti seguirò ovunque tu vada”, è rintracciabile l’entusiasmo, la presunzione di chi crede che seguire il Signore significhi, in fondo, avere successo, affermare se stessi, data la popolarità che Egli sta riscuotendo. Anche Giacomo e Giovanni hanno questa mentalità perché non tollerano che qualcuno rifiuti Gesù e di fronte ai Samaritani che non lo vogliono nel loro villaggio perché gli sono ostili, chiedono: “Vuoi, Signore, che facciamo scendere un fulmine su di loro?”. Il che la dice lunga sulla distanza che c’è tra l’invito di Gesù e la mentalità dei discepoli, che devono ancora crescere e maturare.
A questo primo incontro Gesù risponde: “Io non ti prometto nulla di quello che ti aspetti. Il figlio dell’uomo non ha una pietra dove posare il capo. Non ti offro nessuna sicurezza di questo mondo”. Pensate a come sarà rimasto questo tale, come avrà reagito. Non avrà capito, sarà rimasto confuso. Gesù, chiedendoci di seguirlo, ci invita a fare un cammino di libertà: prima fra tutte la libertà dall’inseguire false prospettive.
Gesù poi incontra una seconda persona che, all’invito risponde: ”Permettimi di seppellire mio padre”. Anche costui non è pienamente libero. In fondo è troppo legato ai rapporti umani, che rischiano di essere asfissianti. Gesù invece vuole invitarci ad essere liberi da tutto ciò che ci paralizza, che ci impedisce di camminare, di prendere una decisione ferma.
Un ultimo individuo risponde a Gesù: “Sì ti seguirò, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Gesù gli risponde: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si guarda indietro, è adatto al regno dei cieli”. Gesù cioè domanda la libertà da tutto ciò che ci fa rimpiangere ciò che abbiamo lasciato, il coraggio della fedeltà, della perseveranza. Ci chiede di fidarci di Lui fino in fondo. Gesù chiede a noi, come ai discepoli, di seguirlo sulla strada dell’amore fino alla fine, dell’amore fedele, che dona tutto se stesso.
Credo che in tutto ciò ci sia tanto da accogliere anche per la realtà della famiglia.
In questo ci aiuta anche la seconda lettura (Lettera di San Paolo ai Galati) che ci parla della libertà. Paolo smonta subito un’idea di libertà falsa, la libertà di fare quello di cui abbiamo voglia, di realizzare i nostri desideri a prescindere dagli altri, talvolta anche a danno degli altri.
San Paolo dice che la libertà che Gesù ci ha donato al prezzo del suo sangue è la libertà dal nostro egoismo, la libertà per amare.
Ecco allora che l’Apostolo ci invita a metterci con amore al servizio gli uni degli altri. La famiglia è il luogo dove si impara ad amare mettendo da parte se stessi. E’ un laboratorio dell’amore, della comunione. Un laboratorio faticoso, per vivere la libertà dell’amare. La famiglia è il luogo dell’incontro, della condivisione, dove impariamo ad uscire da noi stessi per accogliere l’altro, per stargli vicino, per sostenerlo, per perdonarlo. E’ il primo luogo dove impariamo ad amare. Tutti noi siamo grati verso la famiglia che ci ha cresciuto, che ci ha generati, dove abbiamo vissuto la palestra dell’amore.
Don Tonino Bello diceva che la famiglia è l’agenzia periferica della Trinità, perché ne ripete la stessa logica, la stessa dinamica di comunione. Nella vita di Dio non c’è, come dice Tonino Bello, 1+1+1 che fa 3, ma c’è 1x1x1 che fa sempre 1, che crea comunione.
Questa è la vita di Dio che è partecipata alla nostra vita e la famiglia è davvero, come dice don Tonino, l’agenzia periferica della Trinità. Perché la famiglia, pur con tutte le sue imperfezioni, è uno specchio che riflette, magari in modo un po’ confuso, la presenza di Dio, la comunione trinitaria.
Avviandomi alla conclusione, voglio riferirvi un aneddoto del vescovo della mia diocesi di origine, morto prematuramente, il vescovo Gennaro. Una volta mi trovai in una celebrazione per la consacrazione di una monaca di clausura. Al termine della liturgia chiese alla sorella gemella della monaca: “Tu che cosa dici di questa celebrazione, che cosa hai provato?” E lei, dopo un po’ di imbarazzo, rivolgendosi alla sorella: ”Beata lei!”
Allora il vescovo: “Non dire così, perché quando tu a casa sei in cucina, prepari da mangiare per tuo marito e per i tuoi figli, lavi i piatti e riordini la casa, non fai una cosa meno sacra di quello che abbiamo vissuto noi questa sera attorno a questo altare”.
Di quella celebrazione io ho solo questo ricordo, perché furono parole che entrarono nel cuore di tutti. Scese un silenzio di commozione profonda.
La vocazione familiare non è meno sacra della vocazione sacerdotale, religiosa, monastica. Siamo chiamati tutti ad essere riflesso dell’amore di Dio, anche nei gesti e nella vita quotidiana e la famiglia è il sacramento, il segno visibile dell’amore di Dio in mezzo agli uomini. Per questo c’è un sacramento che consacra e benedice l’amore coniugale. Per questo dove c’è l’amore, lì c’è Dio e dove c’è Dio, lì c’è la Chiesa. La famiglia quindi è una piccola Chiesa. Avrà le sue crepe, i suoi difetti; avrà bisogno di restauri e ristrutturazioni, però è questa realtà. E noi siamo qui questa sera per rendere grazie a Dio per il dono della famiglia. Tutti noi veniamo da una famiglia e facciamo esperienza di una famiglia. Chiediamo a Dio di fare della Chiesa una famiglia delle famiglie.
Concludo con delle parole che stamattina mi sono tornate in mente, quando ho partecipato ad un bellissimo incontro presso la comunità “L’imprevisto” di Silvio Cattarina, ascoltando la storia di rinascita di alcuni ragazzi e ragazze della comunità e anche la storia di quattro giovani appartenenti alla comunità “Emmaus” dell’Ucraina, che in seguito alla guerra sono arrivati in Italia e ora sono ospitati a Villa Borromeo. Le loro storie di dolore sono anche storie di incontro con l’amore attraverso l’esperienza della comunità. Dove infatti le famiglie naturali non sono state in grado di dare a questi ragazzi presenza, calore, supporto e dove umanamente le famiglie erano ferite, ecco che con la comunità è scattata la dimensione della famiglia più grande di fratelli e sorelle che si prendono cura di loro. Mi sono tornate in mente quelle parole che San Giovanni Paolo II scrisse nella sua prima enciclica, Redemptor hominis del 1979: “L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta, non lo fa proprio, non vi partecipa vivamente. Solo Cristo rivela l’uomo a se stesso”. Perché Cristo dona la libertà di essere amati, che ti mette nella possibilità di amare a tua volta. Allora chiediamo che ognuno di noi, con il suo compito, sia segno dell’amore di Dio per tanti altri, nelle comunità cristiane, nelle diocesi, nelle parrocchie. Ciascuno di noi è chiamato ad essere ministro, parola che viene da “minus”, che vuol dire farsi “meno”, farsi piccolo per servire l’altro, per amare l’altro, per donare se stesso all’altro. Tutti siamo chiamati a vivere l’amore diventando piccoli.
(trascrizione di Paola Campanini)